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Per la Cassazione l’opera di persuasione del lavoratore, affinché collabori con i funzionari, deve avere dei limiti. E senz’altro non si può diffamare il datore di lavoro.

 

Dove (non) può arrivare l’opera di “persuasione” del lavoratore da parte del personale ispettivo, ce lo dice oggi la Cassazione, con la sentenza n. 14005/2020. La quale, tutto sommato, suggerisce pure come difendersi da pressioni troppo invasive.
Chi fa indagini di polizia, si sa, non ha solitamente un compito facile. Investigare su ipotesi di illecito, corrisponde, più o meno, a ricomporre un mosaico. L’“effetto” che ne dovrebbe sortire, all’esito di investigazioni vincenti, è quello dell’affioramento dei nitidi contorni della prova delle infrazioni commesse. Solo allora si può dire di averle dimostrate davvero.
Diversamente, ogni contestazione non è possibile, né legittima.
Le ispezioni del lavoro, senz’altro identificabili quali attività di polizia (del lavoro, appunto), non fanno eccezione alla regola.
Per i funzionari impegnati a perseguire, per lo più, indebite condotte aziendali che attentano al rispetto della correttezza dei rapporti di lavoro, la limitatezza dei mezzi di prova di cui ordinariamente si avvalgono è una tradizione.
Indagini bancarie, intercettazioni ambientali, riprese compromettenti di attività di lavoratori, sono ben lungi dal costituire il normale armamentario di cui ci si avvale nell’ispezione del lavoro. Lungi dall’essere un’ispezione 2.0, l’azione di accertamento delle condotte datoriali risulta ancora oggi soprattutto poggiare sulle -spontanee, in linea teorica- dichiarazioni di persone informate sui fatti, che vengono per lo più incrociate con registrazioni obbligatorie operate dall’azienda (le classiche iscrizioni sui Libri Unici del lavoro).
Ma se non si riescono a raccogliere almeno alcune dichiarazioni di persone a conoscenza dei fatti, la cosa si fa difficile: molti controlli rischiano di arenarsi sul nascere. Oppure, di fondarsi su ipotesi di mera fantasia.
Normalmente, si sa, tolto lo stesso datore di lavoro (che è un controinteressato naturale dell’ispezione), nessuno può dirsi più informato dei prestatori di lavoro sui modi in cui si svolge l’attività in azienda.
Ma ottenerne una valida dichiarazione, utile dal punto di vista dell’indagine ispettiva, non sempre è garantito, né facile.
I problemi più ricorrenti sono legati alla reperibilità degli stessi dichiaranti; oppure alla loro esigua conoscenza della lingua italiana.
Anche la prevedibile difficoltà a trasmettere notizie in termini giuridicamente idonei crea impaccio ai riscontri ispettivi.
Per cui, talvolta, non possono non leggersi con sospetto alcune verbalizzazioni in cui i dichiaranti -comuni lavoratori- ostentano un eloquio non meno che professionale, con spontanea esternazione di puntuali conoscenze giuslavoristiche.
È molto frequente, poi, che gli ispettori riscontrino una certa “ritrosia” del dipendente a rivelare fatti attinenti l’azienda e al suo datore di lavoro. Le ragioni possono essere svariate.
Oltre alla consistente possibilità che il dipendente in effetti poco ne sappia dell’ambiente
in cui pure opera, frequentemente è il metus di possibili ritorsioni datoriali a frenare le parole. Ma non è neppure inconsueto che tra dipendente e azienda si istituisca una liaison solidale, che vede nell’intrusione dei funzionari una comune minaccia.
Soprattutto in questi casi, compito investigativo degli ispettori è quello di superare quanto più possibile le resistenze, ottenendo rivelazioni fruibili e, soprattutto, trasponendole in un utilizzabile verbale di dichiarazioni, possibilmente “L.C.S.” (cioè, letto, confermato e sottoscritto dal dichiarante.
Ma per la Cassazione la firma non è per forza necessaria (cfr., sentenza n. 8823/2017).
Tanto più che, come insegna la Cassazione, alle dichiarazioni raccolte nel corso del controllo ispettivo deve essere annesso un senso di plausibile genuinità e non artificiosità (cfr. Cass n. 19026/2019), come, invece, talvolta si teme che possa non essere con le dichiarazioni dei medesimi soggetti, ma raccolte dal giudice nel corso di un processo.
“Superare le resistenze” del lavoratore e farlo dichiarare eventualmente contro il datore, tuttavia, richiede capacità di persuasione ed esperienza da parte dell’ispettore.
L’azione di moral suasion ispettiva volta a far “parlare” e collaborare, dovrebbe chiaramente essere contenuta, in primis, entro i limiti del rispetto della deontologia (per cui l’azione dei funzionari -come da codice di comportamento- deve improntarsi a “diligenza, lealtà, imparzialità e buona condotta”).
La “sensibilità” degli ispettori può muoversi, quindi, variamente, tra rassicurazioni agli interlocutori più timorosi; richiami alla collaborazione per i più reticenti; e zelanti pressioni per ottenere l’apporto di quanti fanno fronte comune con le aziende ispezionate.
Proprio su un caso di “pressioni” da parte di un funzionario nei confronti del dipendente di un’azienda ispezionata, si è venuta a pronunciare la Suprema Corte, con la sentenza n. 14005/2020.
Nella vicenda, un lavoratore veniva convocato presso l’Ufficio ispettivo. Giunto nella stanza dell’ispettore che conduceva le indagini, peraltro in presenza di altri funzionari, l’ispettore veniva a usare termini offensivi, quantunque di uso diffuso, in riferimento al titolare dell’impresa ispezionata, con l’apparente intento di fare comprendere al lavoratore come l’azienda lo stesse strumentalizzando.
Tuttavia, la sostenuta suasion del funzionario veniva registrata dal lavoratore con il cellulare. Grazie a ciò, in seguito, l’ispettore veniva prima denunciato e, poi, condannato,
per diffamazione, avendo offeso la reputazione del datore di lavoro.
I giudici di legittimità, di fronte alle difese del funzionario ricorrente, traggono alcuni spunti di riflessione in materia di controlli ispettivi.

Innanzitutto, la Cassazione ritiene reprensibile da un punto di vista morale e giuridico l’utilizzo di espressioni, forse comuni, ma comunque offensive, che non si limitano a essere mere modalità di giustificata critica, ma che vengono a pregiudicare la stessa reputazione del datore di lavoro.

 

Nel descritto contesto, non solo non vi è alcuna giustificazione per un siffatto eloquio volgare, piuttosto censurabile sul piano deontologico in ragione della funzione svolta dal ricorrente, ma neppure vi è spazio per considerare l’espressione utilizzata per qualificare la persona offesa priva di contenuto lesivo, in quanto non può ravvisarsi il requisito della continenza espressiva.
Al contrario, le parole pronunciate dal ricorrente risultano, oggettivamente, pregiudizievoli della reputazione della persona offesa, perché oggettivamente dirette a screditarla sia professionalmente che nella sua vita di relazione sociale.
In definitiva, ai funzionari è concessa solo una moral suasion equilibrata, funzionale e non aggressiva.
Ma quanto ai controlli ispettivi, la S.C. viene anche a riconoscere altro.
Per esempio, come sia legittimo registrare le attività ispettive da parte dei presenti alle medesime.
Per la Cassazione la registrazione tra presenti non costituisce attività indebita, essendo

sempre consentita tra persone legittimamente presenti.

Correttamente, si è escluso che si sia trattato di una captazione illecita, anche richiamando l’orientamento secondo cui la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, o comunque sia ammesso ad assistervi, non è riconducibile, quantunque eseguita clandestinamente, alla nozione di intercettazione, poiché, invece, costituisce una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, legittimamente, anche a fini di prova nel processo, secondo la disposizione dell’art. 234 c.p.p..

Del resto, per i Giudici non rileva neanche che le parole vengano registrate nel corso di un’attività riservata di polizia giudiziaria, assoggettata al segreto investigativo, presso gli stessi uffici ispettivi. I quali uffici ispettivi, ribadisce la Corte di Cassazione, non costituiscono luoghi di privata dimora, da cui vanno escluse le registrazioni.

Le Sezioni Unite hanno affermato che rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico, né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (SS.UU. n. 31345/2017). Facendo corretta applicazione di tali principi, deve escludersi che l’Ufficio ispettivo, in cui è avvenuto il colloquio nel corso del quale l’imputato ha pronunciato le parole incriminate, possa costituire un luogo di privata di dimora, poiché in esso si compiono abitualmente attività di rilievo pubblico; nella specie, il colloquio informativo con un lavoratore costituiva diretta esplicazione della funzione pubblicistica svolta proprio dal ricorrente, il quale non aveva neppure la disponibilità esclusiva dell’ufficio, condividendolo con i suoi colleghi che, infatti, erano presenti in quell’occasione.

Ma soprattutto, a mente della sentenza n. 14005/2020, le parole utilizzate sono mancate di correttezza, essendo idonee a ledere la reputazione del datore di lavoro, a nulla rilevando lo scopo per cui erano state proferite.

Ossia, quale “escamotage per vincere la resistenza del dichiarante ed evidenziare la spregiudicatezza del comportamento datoriale, attraverso l’utilizzo di espressioni colorite e di uso comune”.
Per i Giudici, insomma, conta in modo fondamentale che l’esternazione sia avvenuta all’interno di un ufficio pubblico, mentre si svolgeva un’attività investigativa, e che le parole incriminate siano state pronunciate da un ufficiale di polizia.
In definitiva le espressioni “incentivanti” del funzionario erano state malamente esternate nel corso dell’espletamento di un accertamento amministrativo, in un ambito istituzionale che rivelava posizioni non paritarie tra le parti.
Per i Giudici, le parole degli ispettori devono sempre tenere conto della posizione di potere che viene a estrinsecarsi nel corso del controllo ispettivo, che pone ispezionati e altri soggetti chiamati alla collaborazione nella posizione di sostanziali “sottoposti” agli organi di controllo.

La relazione ispettiva nella quale l’esternazione si è manifestata può essere, sostanzialmente, assimilabile a quella tipica di contesti connotati da rapporti di gerarchia, in relazione al quale, nella giurisprudenza della Cassazione, si è affermato che, affinché una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell’insulto a quest’ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale trasgressione realizzata.

Per cui, data la posizione di superiorità assunta dall’ispettore, occorre che la moral suasion non sconfini in coartazione morale. Un’opera di convincimento temperata e continente, in definitiva, è accettabile. Ma nulla di più.

di Mauro Parisi

[Sintesi n. 9/2020]