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Per recuperare gli stipendi.

Sono almeno 30 mila gli ex calciatori che hanno smesso di lottare sui campi di calcio e ora stanno lottando per recuperare i loro stipendi non versati. Perché le loro ex squadre li hanno lasciati «a spasso», dissolvendosi nei debiti e negli insoluti di una crisi economica che non risparmia niente e nessuno. Neppure il mondo dorato del calcio. E ora alcuni dei disoccupati del pallone, decisi a tralasciare la giustizia ordinaria (vietata a pena di sanzioni disciplinari sportive), per rivedere almeno un po’ dei soldi loro promessi (solitamente sottobanco, anche per decine di migliaia di euro), stanno pensando di rivolgersi a uno strumento amministrativo prezioso e, stando alle norme sportive, non vietato. La diffida accertativa del Ministero del lavoro. Come noto, prevista dall’art. 12, dlgs 124/2004, si tratta dello speciale potere di accertamento dei «crediti patrimoniali» in favore dei prestatori di lavoro. Una volta che i funzionari abbiano accertato il credito del calciatore, la convalida della Direzione territoriale del lavoro competente conduce alla «creazione» di un titolo esecutivo di origine stragiudiziale. Per cui, senza passare dal giudice ordinario, è possibile azionare il credito stesso: notificare il precetto e intimare il pagamento. Un titolo esecutivo gratis, insomma. Già non poco. Ma non basta. La verifica dell’esistenza dell’eventuale rapporto di lavoro in sede amministrativa, garantisce anche la ricostruzione della posizione contributiva dello sportivo, con recupero da parte dell’Inps della contribuzione omessa.

Un’opportunità, tuttavia, non priva di «pregiudizi» da superare. In primo luogo quelli che discendono dallo stesso ordinamento sportivo. Come si sa, nel nostro paese il rapporto di lavoro sportivo è solo quello con atleti professionisti. Il quale viene disciplinato dalla legge 91 del 1981. Tale norma dispone che tali rapporti di lavoro subordinato – «a titolo oneroso con carattere di continuità» – possono costituirsi solo in ambiti riconosciuti come professionistici dal Coni. Dunque, non nei campionati inferiori alla ex serie C. La seconda «preclusione» è quella della desumibile dalle stesse normativa interna della Federazione italiana giuoco calcio. Infatti, l’articolo 94-ter del N.O.I.F. (il corpo di regole organizzative adottate) prevede espressamente che «per i calciatori/calciatrici tesserati con società partecipanti ai Campionati nazionali della Lega nazionale dilettanti, è esclusa_ ogni forma di lavoro autonomo o subordinato». Questo non esclude che sia ammessa la sottoscrizione di accordi che riconoscono ai calciatori dilettanti indennità di trasferta e rimborsi forfettari. Per «compensi» massimi consentiti che non possono superare i 7.500 euro. Tali accordi vengono depositati in Federazione e, nel caso di inadempimenti, l’ordinamento sportivo prevede la possibilità di accertamenti e ricorsi a Commissioni interne alla Lega nazionale dilettanti. A pena di nullità e privi di qualunque efficacia sono invece gli accordi integrativi e sostitutivi rispetto a quelli ufficiali, su cui, si reggono spesso e volentieri le carriere di molti calciatori dilettanti «di lungo corso». I professionisti del dilettantismo, se vogliamo definirli così. In questi e in altri casi, i calciatori possono però dimostrare che quello che correva con la loro squadra, non era solo un semplice rapporto amatoriale, ma un vincolo di vera e propria prestazione lavorativa continuativa. In definitiva, né più, né meno che un rapporto di lavoro.

di Mauro Parisi

[ItaliaOggi n. 101 del 29.04.2014]