Capita che l’Inps risolva con interpretazioni retroattive questioni mai regolate negli anni. Con rischi per il contribuente incapace di conoscere fin dal principio i precetti. Un caso paradigmatico è per esempio quello della scelta del dipendente per il regime contributivo ex art. 1, co. 23, L. n. 335/1995. Norma e prassi non prevedono vincoli all’opzione, che pure l’Istituto pretende. In attesa che si pronunci la Cassazione.
Non è raro che il contribuente sia chiamato dall’Inps a rispondere di proprie condotte che neppure avrebbe potuto conoscere -e quindi rispettare- al tempo del presunto illecito.
Si tratta di situazioni di ritenute evasioni contributive, discendenti da interpretazioni di regole e rapporti che l’Istituto esplicita solo ex post, secondo ricostruzioni delle materie che vengono declinate indefettibilmente pro domo sua.
Molte richieste e recuperi vengono in definitiva giustificati, in carenza di una norma espressa, in ragione, non solo di una prassi amministrativa (e già ciò costituisce un aspetto critico, a mente dell’art. 23 della nostra Costituzione), ma addirittura “postuma”. Per cui, neppure con la migliore buona volontà il contribuente interessato avrebbe potuto conoscere cosa fare, al tempo dei fatti, per evitare le contestazioni.
Paradigmatico al riguardo appare il caso dell’opzione del dipendente per il regime pensionistico contributivo, ai fini dell’applicazione del massimale annuo di imponibile assoggettabile.
In effetti, a un tratto, trascorsi 25 anni dall’entrata in vigore della Legge n. 335/1995, l’Inps emanò il messaggio del 31.12.2020, prot. n. 5062, relativo a “Controlli sulla corretta esposizione in UNIEMENS dell’imponibile eccedente il massimale”, richiedendo alle proprie sedi di avviare campagne di recuperi di contribuzione nei casi di cui, tra l’altro, all’esposizione negli Uniemens del campo “«EccedenzaMassimale»”, non fosse corrisposto un riscontro della materiale opzione da parte del lavoratore interessato.
La verifica relativa alla presenza di opzione per il sistema contributivo, in particolare, va effettuata in collaborazione con le Linee prodotto servizio “Assicurato pensionato” e/o “Gestione conto assicurativo individuale” di ciascuna Struttura territoriale. Se all’esito dei descritti controlli l’operatore dovesse vedere confermate le seguenti due circostanze: – presenza di anzianità contributiva antecedente la data del 1° gennaio 1996, – assenza di esercizio dell’opzione per il sistema contributivo ai sensi dell’articolo 1, comma 23, della legge n. 335/1995, la Struttura territoriale procederà al recupero dei contributi non versati applicando l’aliquota IVS piena … all’ imponibile esposto come <EccedenzaMassimale>.
Tutto apparentemente chiaro.
Senonché molti datori di lavoro interessati, sereni su come avevano gestito i versamenti contributivi dei propri dipendenti allo stato di legge e prassi -avendo raccolto all’atto dell’assunzione o successivamente le dichiarazioni dei medesimi sul loro pregresso contributivo (come peraltro preteso dall’Inps con la circolare n. 177/1996 e poi con la circolare n. 42/2009)-, si sono improvvisamente visti contestare proprio l’“assenza di esercizio dell’opzione” da parte del lavoratore e richiedere contributi evasi e sanzioni civili.
Ciò, in quanto sarebbe difettato il riscontro, presso l’Inps, di una manifesta prova di avere ricevuto la dichiarazione del dipendente.
Un presunto adempimento di comunicazione dai contenuti incerti, per vero, mai previsti puntualmente in alcuna norma, né chiarimento amministrativo (almeno fino al 2021).
Equiparabili al difetto di opzione, perciò, si sono iniziati a ritenere i casi di scelte espresse dei dipendenti, ma esposte al solo datore di lavoro, che provvedeva di conseguenza -necessariamente- alle denunce all’Istituto e ai relativi versamenti.
Come noto, con la riforma pensionistica introdotta dalle Legge n. 335/1995, era stato meramente stabilito che il lavoratore con contributi versati prima dell’1.01.1996, fosse assoggettato naturalmente al regime pensionistico retributivo, ma che potesse esercitare tout court il diritto di opzione per il regime contributivo, stabilito dall’art. 1, comma 23 della predetta norma.
Per i lavoratori di cui ai commi 12 e 13 la pensione è conseguibile a condizione della sussistenza dei requisiti di anzianità contributiva e anagrafica previsti dalla normativa previgente, che a tal fine resta confermata in via transitoria come integrata dalla presente legge. Ai medesimi lavoratori è data facoltà di optare per la liquidazione del trattamento pensionistico esclusivamente con le regole del sistema contributivo, ivi comprese quelle relative ai requisiti di accesso alla prestazione di cui al comma 19, a condizione che abbiano maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a quindici anni di cui almeno cinque nel sistema medesimo.
Alla luce della previsione è così avvenuto che molti lavoratori di retribuzione elevata abbiano nel tempo deciso di optare per il regime contributivo, grazie al quale avrebbero potuto godere del limite del massimale annuo di imponibile, non assoggettando a imposizione la quota eccedente, come stabilito dall’art. 2, comma 18, L. n. 335/1995, con vantaggi propri.
Per i lavoratori, privi di anzianità contributiva, che si iscrivono a far data dal 1° gennaio 1996 a forme pensionistiche obbligatorie e per coloro che esercitano l’opzione per il sistema contributivo, ai sensi del comma 23 dell’articolo 1, è stabilito un massimale annuo della base contributiva e pensionabile di lire 132 milioni, con effetto sui periodi contributivi e sulle quote di pensione successivi alla data di prima assunzione, ovvero successivi alla data di esercizio dell’opzione.
Il diritto di opzione, formulato in questi termini incondizionati, si palesa perciò come un diritto assoluto del lavoratore, non soggetto ad autorizzazioni, né a ratifiche, né a interventi potestativi dell’Inps, né a vincoli di sorta.
Dall’entrata in vigore della Legge n. 335/1995, in realtà, non si è mai riscontrata alcuna puntuale indicazione della legge in ordine al modo in cui fare valere la scelta.
Del resto anche l’interpretazione autentica dell’art. 1, co. 18, L. n. 335/1995 (art. 1, co. 280, L. n. 208/2015) faceva semplicemente riferimento a situazioni relative a contributi accreditati a domanda, riferiti a periodi precedenti al 1996 (quindi, solo a una delle possibili condizioni in cui si possono trovare i dipendenti che optano per il regime contributivo).
Se dal tenore della norma non emergevano dubbi in riferimento all’esistenza di un diritto assoluto e non vincolato del lavoratore di esercitare l’opzione, nel tempo, a mente della prassi amministrativa formatasi, neppure sorgeva mai questione alcuna sull’esistenza di adempimenti specifici da ottemperare.
Le molte circolari elaborate negli anni dall’Istituto (cfr. circolari Inps n. 177/1996, n. 148/2000, n. 42/2009, n. 7/2010, n. 6/2020 e Messaggio Inps n. 219/2013) sono sempre state assolutamente carenti di indicazioni in ordine a eventuali modalità formali della notizia dell’opzione del lavoratore.
Solo successivamente alla campagna di recuperi contributivi avviata nel 2020, nel 2021, con la circolare n. 54 del 26.4.2021, l’Inps introduceva un portale e una procedura telematica che oggi consentono di registrare l’opzione dei lavoratori per il regime contributivo.
Tuttavia, anche attualmente ciò vale solo per quanti hanno maturato il diritto alla pensione, ai fini della relativa liquidazione (e non dunque per le opzioni dei dipendenti avvenute in corso di rapporto di lavoro).
La retroattiva concezione formalistica fatta propria dall’Inps, tra l’altro, non appare conciliabile con i preminenti e contrari principi giuridici di civiltà, inerenti la libertà delle forme (cfr. 1325 e 1350, c.c.) e la conservazione degli atti (cfr. art. 1367, 1419, 1420 e 1446 c.c.), quando, “forma” a parte, dalla scelta del dipendente non emergano irregolarità e si siano raggiunti gli scopi stabiliti dall’ordinamento.
Su vicende connesse al tema è cresciuto, così, un filone di contenzioso giudiziario, ora in attesa di definizione da parte della Suprema Corte, a fronte di giudizi di merito che spesso hanno inteso riconoscere le ragioni “postume” dell’Istituto, di fatto vincolando il diritto assoluto dell’opzione del lavoratore alla ricezione dell’atto unilaterale di scelta da parte dell’Istituto. In senso favorevole all’Inps, si è espressa, per esempio, la Corte d’Appello di Milano, sentenza n. 515/2023.
L’esercizio del diritto di opzione ex art. 1, comma 23 della legge n. 335/1995 attiene al rapporto previdenziale e spetta quindi al singolo lavoratore, perché dall’esercizio o meno del diritto in questione, nel corso della vita lavorativa o al momento del pensionamento, dipenderà il concreto atteggiarsi, cioè il concreto ammontare del trattamento pensionistico. Dal lato passivo il destinatario della dichiarazione di volontà del lavoratore, cioè dell’opzione, è l’altro contraente del rapporto previdenziale, cioè l’ente di assicurazione sociale, che per effetto dell’esercizio del diritto di opzione da parte del lavoratore, sussistendone i requisiti, sarà tenuto a procedere alla liquidazione del relativo trattamento pensionistico. Il rapporto contributivo, ovvero l’entità dei contributi dovuti, con l’applicazione o meno del massimale, è solo una conseguenza della dichiarazione di volontà del lavoratore nei confronti dell’ente previdenziale. L’opzione ex art. 1, comma 23 costituisce un atto unilaterale avente rilevanza patrimoniale di natura recettizia che può produrre efficacia solo nel e dal momento in cui perviene a conoscenza del soggetto a cui è destinata.
Come dire che non basterebbe neppure provare che l’Inps era comunque venuto a conoscenza dell’opzione, anche attraverso terzi (es. Uniemens del datore di lavoro, privi di lacune e omissioni di sorta), essendo ritenute a ogni modo necessarie formali comunicazioni dirette (non si sa se con raccomandate, fax, email, eccetera) e di mano propria del lavoratore medesimo.
Una situazione di bizzarra incertezza giuridica per cui, alla fine, rischiano di essere chiamati a pagare soprattutto i datori di lavoro.
di Mauro Parisi