La sentenza n. 178/2024 del Giudice del lavoro di Milano ha accolto la posizione dell’Inps che non ammette la pensione anticipata per i conviventi che assistono da tempo disabili gravi ex L. n. 104/1992. Una disparità di trattamento che sarebbe solo apparente rispetto a coniugi e quanti sono uniti civilmente, a causa dell’“instabilità” delle convivenze di fatto.
Per i conviventi di fatto, sebbene sempre più assimilati a marito e moglie dal nostro ordinamento, arriva una battuta d’arresto da parte dell’Inps quanto all’estensione del diritto di godere della pensione anticipata per coloro che assistono una persona con disabilità, secondo la Legge n. 104/1992 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).
Infatti, ai conviventi non troverebbe applicazione la disposizione dell’art. 1, comma 199, della Legge n. 232/1999, che prevede, tra le ipotesi in cui è concessa una riduzione del requisito contributivo ai fini del pensionamento, quella di quanti assistono da almeno sei mesi, al momento della richiesta, il coniuge con disabilità gravi. Va detto che già l’ordinamento aveva espressamente riconosciuto l’estensione del beneficio, alle medesime condizione, con riguardo a relazioni tra persone strette da unioni civili (art. 3, D.P.C.M. n. 87/2017).
Non così, tuttavia, può essere fatto valere per i conviventi more uxorio, neppure in termini di estensione in via di principio e per analogia della condizione.
Una linea di rigore giuridico ora sposata dall’attentissima sentenza del Tribunale di Milano, sezione lavoro, n. 178 del 17 gennaio 2024, pubblicata il 27 febbraio, la quale compie un’approfondita disamina della fattispecie specifica oggetto del giudizio e della comparazione tra i tre istituti di relazione personale e affettiva riconosciuti dall’ordinamento: matrimonio, unione civile e, appunto, convivenza di fatto.
La vicenda considerata, che dava origine al ricorso di fronte al Giudice del lavoro, attiene alla posizione di un lavoratore, convivente con un soggetto disabile, il quale presentava all’Inps domanda per accedere alla pensione di anzianità anticipata, allegando di essere suo convivente di fatto da anni e che era stata riconosciuta la condizione di handicap con connotato di gravità di cui all’art. 3, co. 3, Legge n. 104/1992 (“Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità”).
L’Inps, tuttavia, escludeva il diritto alla pensione anticipata per assenza dei requisiti soggettivi, non trattandosi, a suo avviso, di un caso espressamente considerato dalla legge.
La ratio dell’apparente disparità di trattamento risiederebbe nella differente e minore stabilità che la convivenza di fatto possiede rispetto al coniugio e all’unione civile. Infatti, i rapporti more uxorio, sebbene connotati da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non possono essere integralmente equiparati al matrimonio e alle unioni, ai sensi della Legge n. 76/2016.
Questi ultimi, perdurando il legame, si connotano per specifici obblighi di coabitazione e di contribuzione ai bisogni comuni, mentre, sciolto il vincolo, si caratterizzano per il permanere di un vero e proprio obbligo di mantenimento.
A suffragio della tesi, che trova conforto costituzionale negli orientamenti recenti della Corte delle leggi (per cui “la distinta considerazione costituzionale della convivenza e del rapporto coniugale non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro” qualora presentino “analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost.”: così, C. Cost., 23 settembre 2016, n. 213; C. Cost., 3 novembre 2000, n. 461; C. Cost., 20 aprile 2004, n. 121), la sentenza n. 178/2024 ripercorre con attenzione la normativa di riferimento dei rispettivi rapporti.
L’equiparabilità di convivenza e matrimonio va esclusa già a mente della circostanza che nella convivenza di fatto, non manca solo l’obbligo della coabitazione, ma soprattutto l’obbligo di contribuire ai bisogni comuni. Diversamente l’art. 143, co. 2, c.c. che stabilisce che
con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.
Una condizione prevista in modo non dissimile per le unioni civili, per le quali, ai sensi dell’art. 1, comma 11, Legge n. 76/2016,
con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni.
Tuttavia, di ancora maggiore rilievo ai fini della negata richiesta di pensione anticipata è la previsione dell’art. 156, c.c., per cui il Giudice, in caso di separazione tra coniugi, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri, mentre in caso di divorzio, ai sensi dell’art. 5, co. 6-7, Legge n. 898/1970,
“tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. La sentenza deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell’assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria. Il tribunale può, in caso di palese iniquità, escludere la previsione con motivata decisione”.
Similmente, l’art. 1, co. 25, Legge n. 76/2016 prevede che in caso di cessazione dell’unione civile sia garantito un medesimo diritto all’assegno divorzile attribuito, nei casi di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, alla parte economicamente più debole.
La legge non prevede alcun obbligo del genere alla cessazione della convivenza di fatto -a cui si perviene con un mero comportamento concludente e una dichiarazione di stato-, atteso che l’art. 1, comma 65, Legge n. 76/2016 si limita a garantire al convivente, che versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, la molto inferiore obbligazione degli alimenti.
Per la sentenza del Giudice del lavoro di Milano, pertanto, occorre “condividere l’assunto dell’Ente Previdenziale secondo cui matrimonio e unioni civili partecipano di certezza, stabilità, reciprocità e corrispettività di diritti e obblighi non equiparabili a quelli propri delle convivenze di fatto”.
Infatti, le differenze di disciplina e trattamento normativo giustificano, anche “sotto il profilo della ragionevolezza e di una piana applicazione del principio di uguaglianza sostanziale, nell’ampio ambito dei diritti correlati alle esigenze di cura e assistenza dei soggetti disabili, le differenti discipline previste, da un lato, per benefici connotati dal carattere della contingenza e temporaneità (anche ove duraturi, rilevando comunque la non definitività), quali quelli di cui all’art. 33 Legge n. 104/1992, e, dall’altro, per istituti destinati a determinare una modificazione permanente della situazione giuridica soggettiva dell’ interessato, quali la pensione anticipata di cui qui si discute”.
In sostanza, se l’attribuzione dei benefici della Legge n. 104/1992 anche ai conviventi va correttamente consentita nell’interesse del disabile e in costanza della convivenza stessa, non può essere però ammesso il conseguimento di un diritto permanente -quale sarebbe quello del beneficio della pensione anticipata di cui all’art. 1, co. 199, lett. b, Legge n. 232/2016- allorquando il venire meno del vincolo di convivenza comporterebbe il venire meno di tutti gli obblighi di assistenza e mantenimento, come non invece per i coniugi e quanti sono uniti civilmente.
Ciò, in definitiva, determinerebbe una discriminazione a contrario, con favore alla convivenza di fatto rispetto al matrimonio e all’unione civile, come correttamente nota la sentenza n. 178/2024.
Così il Tribunale di Milano, sez. Lavoro, sentenza 17.1.2024, n. 178
Si ritiene che il Legislatore abbia escluso consapevolmente – e, soprattutto, legittimamente sotto il profilo costituzionale – la convivenza di fatto dall’ambito di applicazione della disciplina in materia di pensione anticipata.
Diversamente argomentando, emergerebbero profili di potenziale illegittimità costituzionale per discriminazione a contrario: il convivente more uxorio, difatti, vedrebbe acquisito in via definitiva il diritto alla pensione anticipata senza, tuttavia, esser gravato – in caso di scioglimento del vincolo – dai medesimi obblighi posti a carico degli ex coniugi o parti dell’unione civile; in caso di cessazione del rapporto, dunque, il convivente di fatto beneficerebbe – senza un’oggettiva giustificazione – di una condizione di evidente miglior favore, potendo mantenere il beneficio acquisito in assenza di qualsivoglia obbligo.
Ciò emerge in una prospettiva già espressamente ammessa dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. sentenza 3 novembre 2000, n. 461) in materia di pensione di reversibilità e diritti del convivente di fatto rispetto al coniuge. Per cui la medesima Corte ha ribadito “ la diversità delle situazioni poste a raffronto e, quindi, la non illegittimità di una differenziata disciplina delle stesse. Nemmeno può dirsi violato il principio di tutela delle formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana. E ciò in quanto la riferibilità dell’art. 2 Cost. anche alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità (sentenze n. 310 del 1989 e n. 237 del 1986) non comporta un necessario riconoscimento, al convivente, del trattamento pensionistico di reversibilità che non appartiene certo ai diritti inviolabili dell’uomo presidiati dall’art. 2 della Costituzione”.
Una situazione che, chiaramente, per scelta legislativa e variando la normativa -per cui non nell’attuale stato della medesima- potrebbe chiaramente mutare.
di Mauro Parisi