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Stop alle testimonianze dei lavoratori per provare i recuperi Inps dei loro contributi. Tanto più se si tratta dello stesso denunciante e di chi ha già vertenze con il datore di lavoro aggredito anche dall’istituto. La Cassazione, con la sentenza n. 20619/2019, ribadisce il divieto di sentire nel processo i dipendenti dell’azienda se le pretese contributive riguardano le loro stesse posizioni.

Per essi scatta l’incapacità a testimoniare, secondo la previsione dell’art. 246 del codice di procedura civile. In sostanza la Suprema corte conferma che non possono essere assunti come testimoni coloro che abbiano un interesse nella causa tale da potere legittimare la loro partecipazione al giudizio. Nel caso, a quello dell’Inps che intendesse recuperare dall’azienda importi a favore del lavoratore. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale che di fatto può «annullare» il ruolo delle parole dei lavoratori interessati anche nel corso del controllo ispettivo. Si pensi, per esempio, al caso di chi, impiegato per anni in un’azienda come collaboratore con partita Iva, venga considerato dall’Inps, in seguito, quale lavoratore subordinato dell’azienda.

Dal disconoscimento dell’istituto consegue, chiaramente, la pretesa relativa e conseguente del versamento di tutta la contribuzione omessa nel tempo. Appare chiaro che la testimonianza del lavoratore difficilmente potrebbe essere ritenuta «serena». Sarebbe facile, infatti, scorgere il suo interesse ad «associarsi» all’Istituto, offrendo una testimonianza magari solo involontariamente «declinante» secondo le prospettazioni dell’Inps. Ne conseguirebbe un evidente vantaggio personale diretto: per esempio, nel senso di ottenere l’accrescimento del proprio montante contributivo a fini pensionistici. Non una cosa da poco. La pronuncia della Cassazione verrà, se correttamente applicata nei tribunali, a limitare la possibilità dell’Inps di provare in tali forme le proprie ragioni.

Da sempre le testimonianze dei lavoratori costituiscono il maggiore motivo di prova della correttezza o meno dei rapporti di lavoro verificati dagli ispettori. Del resto, come ricorda anche di recente la stessa Cassazione (sentenza n. 9662/2019) «l’onere della prova è indubbio che, rispetto al diritto di credito alla contribuzione, gravi sull’ente previdenziale, con riferimento alla prova delle corresponsione di somme in ragione di un rapporto (di lavoro subordinato o altro titolo) che giustifichi secondo le norme l’obbligo contributivo». Al contrario, il datore di lavoro è onerato, eventualmente, solo di dimostrare che i mancati pagamenti trovino giustificazione in titoli idonei a sottrarli alla contribuzione (come per esoneri e agevolazioni).

Ma se è vero che il lavoratore potrebbe essere incapace a testimoniare, potrà comunque essere chiamato dal giudice in forza dei suoi poteri dispositivi (art. 421, cpc). Con l’obbligo, però, di ricercare riscontri obiettivi alle dichiarazioni e non dimenticandosi del potenziale vantaggio del lavoratore.

[ItaliaOggi n. 250 del 23.10.2019]