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La questione delle sanzioni amministrative per gli omessi versamenti delle ritenute sulle retribuzioni dei dipendenti, malgrado il recente revirement favorevole dell’Inps, approda oggi alla Corte Costituzionale. Il Giudice ordinario rileva, infatti, come appaiono comunque sproporzionate le potenziali sanzioni pecuniarie in misura anche centuplicata rispetto all’effettiva omissione di versamento del datore di lavoro. Rilievi di incostituzionalità che potrebbero però riguardare anche altre fattispecie punitive.

di Mauro Parisi

La vicenda delle sanzioni amministrative Inps per gli omessi versamenti del datore di lavoro (quelle monstre fino a € 50mila, per intenderci, ex art. 2, c. 1bis, D.l. n. 463/1983) si arricchisce a ritmo serrato di nuovi capitoli ed evoluzioni repentine. Tutte in favore dei datori di lavoro, vi è da dire, seppure accertati trasgressori.

Come si ricorda, nell’anno in corso, nella materia, era stato suscitato un allarme molto giustificato, a causa della presa di posizione dell’Inps in chiave decisamente repressiva (con la circolare Inps n. 32/2022: cfr. “Omessi versamenti di ritenute Inps e la campagna di sanzioni monstre”: Sintesi, giugno 2022, pag. 19). Quindi, nel volgere di qualche mese, si era riscontrato il ripensamento da parte dello stesso Istituto, quanto alla determinazione della misura delle sanzioni da adottare. Almeno per i fatti commessi prima del febbraio 2016.

Sanzioni amministrative non più monstre, comunque troppo consistenti, ma decisamente più “accomodanti”, quelle attuali, rispetto alle precedenti. Alla rivalutazione dei propri orientamenti, l’Inps era stato costretto dal notevole e fondato contenzioso che, come prevedibile, era sorto nel frattempo presso i Tribunali. Tanto da costringerlo a un mea culpa giuridico -per essersi discostato da una corretta interpretazione della legge di depenalizzazione del 2016-, con il lancio di una campagna di rideterminazione in autotutela delle sanzioni già notificate o notificande (con il messaggio n. 3516 del 27.9.2022: cfr. “Contrordine Inps. Tagli alla sanzione per gli omessi versamenti”: Sintesi, ottobre 2022, pag. 15).

Una rilettura della legge -e, in particolare, dell’art. 9, comma 5, D.lgs. n. 8/2016 (“l’interessato è ammesso al pagamento in misura ridotta, pari alla metà della sanzione, oltre alle spese del procedimento”)- che ha garantito la possibilità per i trasgressori di essere ammessi a una generosa “scontistica”.

Così, il richiesto versamento in misura ridotta -che estingue la procedura sanzionatoria, evitando l’ordinanza-ingiunzione dell’Inps-, prima indefettibilmente determinato nella misura di € 16.666, diventa oggi pari a € 5000. O almeno lo diventa nella maggiore parte dei casi, precedenti al 6 febbraio 2016.

La stessa sanzione amministrativa definitiva, irrogabile per la circolare Inps n. 32/2022 sempre in misura non inferiore di € 17000, si attesta ora sul minimo edittale di € 10000. E ciò in tutte quelle situazioni (che sono del resto le medesime per cui la misura ridotta per gli illeciti sarà pari a € 5000) nelle quali l’omissione contributiva relativa alle ritenute sulla retribuzione del lavoratore è pari o inferiore a € 8333 per anno.

La semplice equazione che delimita la misura dell’omissione contributiva da sanzionare al minimo, la si ricava senza difficoltà dalle stesse indicazioni dell’Inps offerte ai propri Uffici territoriali, i quali si dovranno attenere ai criteri matematici di cui alla tabella allegata al messaggio n. 3516/2022 (l’Istituto ha in particolare predeterminato coefficienti di calcolo diverso importo, in proporzione alla gravità obiettiva dell’evasione).

Nell’ipotesi di omissioni per un anno, la misura della sanzione pecuniaria sarà perciò ricavata dal risultato dell’operazione: “importo ritenute omesse x 1,2”.

Non vi è dubbio, in definitiva, che negli ultimi mesi il “clima” della questione sia mutato in senso più favorevole a trasgressori e datori di lavoro.

Oltre al revirement dell’Inps, sono da segnalare le attente disamine dei Giudici di merito investiti dai procedimenti di opposizione di ansiosi datori di lavoro, i quali hanno tra l’altro riconosciuto come l’Istituto debba, non solo dimostrare il merito dei fatti contestati (ossia, con esattezza, che la contribuzione non versata attenga proprio alla quota del lavoratore), ma anche la correttezza della procedura sanzionatoria seguita.

Ci si è infatti spesso accorti che, soprattutto per fatti più risalenti, anche al cospetto di prove provate di omissione, le tempistiche inderogabili previste dalla Legge n. 689/1981 non sono state rispettate. Ciò sia rispetto alla possibilità di contestare gli illeciti amministrativi (novanta giorni dall’accertamento, di norma, ex art. 14), sia di recuperare sanzioni amministrative (cinque anni, ex art. 28).

In tale senso, tra i primi interventi significativi si è registrato quello del Tribunale di Arezzo (sentenza 3.8.2022, n. 166), il quale ha chiarito, come pure in materia di illeciti amministrativi in materia di omesse ritenute, alla stregua dell’orientamento della S.C. (cfr. Cass., sentenza n. 1921/2019) all’Inps

incombe -ove costituiscano oggetto di contestazione ad opera del ritenuto trasgressore- sia l’assolvimento della prova relativa alla legittimità dell’accertamento presupposto dal provvedimento irrogativo della sanzione amministrativa sotto il profilo dell’osservanza degli adempimenti formali previsti dalla legge, sia quello della piena prova della legittimità del susseguente procedimento sanzionatorio fino al rituale compimento dell’atto finale che consente la valida conoscenza del provvedimento applicativo della sanzione alla parte che ne è destinataria.

In sostanza, è confermato che non sussistono meccanismi automatici e indimostrati di irrogazione delle sanzioni amministrative da parte dell’Istituto.

Seppure si sono fatti indubitabilmente dei progressi in ordine alla sostenibilità delle sanzioni amministrative irrogabili (non meno che delle somme da corrispondere in misura ridotta), tuttavia, obiettivamente, esse appaiono ancora del tutto spropositate rispetto all’offensività comune dei fatti da punire.

Che, si ricorda, potrebbero essere avvenuti pure per mere e transitorie difficoltà finanziaria, per semplici fraintendimenti o in altre ipotesi colpose, sostanzialmente bagatellari.

Una tesi condivisa oggi anche dai Giudici di merito, che hanno ritenuto in fondo non eque e proporzionate le sanzioni amministrative previste dall’ordinamento.

L’attenzione alla proporzionalità della misura della punizione rispetto all’illecito, che come è risaputo, costituisce attualmente una costante ragione di richiamo e leit motiv della stessa Corte di Giustizia UE. La quale, anche di recente, per esempio in materia di distacco transnazionale di lavoratori (cfr. Corte di Giustizia UE 8.3.2022, C. 205-20), ha ricordato come “Il principio del primato del diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso impone alle autorità nazionali l’obbligo di disapplicare una normativa nazionale, parte della quale è contraria al requisito di proporzionalità delle sanzioni…, nei soli limiti necessari per consentire l’irrogazione di sanzioni proporzionate” (sul tema della proporzionalità, ex multis, si veda anche la nota pronuncia della Corte di Giustizia UE 3.3.2020, C. 482-18).

Per cui non sorprende che ora il Giudice ordinario, come nel caso di quello presso il Tribunale di Verbania, si accorga come, malgrado l’intervento mitigatorio dell’Inps con il messaggio n. 3516/2022, residui ancora un’irragionevole sproporzione tra fatti pure contra ius e punizioni irrogabili.

Per cui, non essendogli stato difficile immaginare una potenziale lesione dell’art. 3 della Costituzione, rispetto alla previsione dell’art. art. 2, co. 1bis, D.l. n. 463/1983, nel corso di un giudizio di opposizione contro l’Inps, il medesimo Giudice ha deciso di sollevare la questione di legittimità costituzionale in riferimento alla sanzione amministrativa in discorso, disponendo il rinvio della questione alla Corte costituzionale.

Al riguardo il Tribunale di Verbania (Ordinanza del 13 ottobre 2022), tra l’altro,

osserva come il legislatore nella fissazione di un minimo e di un massimo della sanzione amministrativa che “parte” da € 10.000 e “arriva” fino a € 50.000 abbia sottoposto a un’irragionevole disparità di trattamento i trasgressori della norma per le omissioni contributive sotto la soglia di rilevanza penale fino all’omissione di € 10.000. Ciò che si intende sottolineare è, cioè, il fatto che in astratto il trasgressore che massimamente viola il precetto normativo nel suo massimo valore sottosoglia (per € 10.000) può soffrire una sanzione amministrativa che, nella sua previsione massima, pari a € 50.000, rappresenta il quintuplo della violazione. Diversamente, il trasgressore per un importo minimo oggetto della omissione, pari a esempio a € 100, anche nella irrogazione della sanzione amministrativa minima prevista dalla legge, pari a € 10.000, viene in realtà sanzionato per un importo che rappresenta il centuplo della propria violazione.

Ciò con un’evidente asimmetria di trattamento dei cittadini che, pure, violando con diversa gravità il precetto normativo, non vedono tale diversa gravità altrettanto diversamente ponderata e graduata nella determinazione della sanzione.

Né, in tale senso, costituisce un valido correttivo della norma il richiamo ai criteri di commisurazione della sanzione di cui all’art. 11, Legge n. 689/1981 -pure applicabile alla fattispecie del caso concreto per effetto dell’art. 6 del D.lgs n. 8/2016- poiché, per quanto detto, la previsione della sanzione minima pari a € 10.000, prevista dalla norma dell’art. 3, comma 6 del decreto legislativo 8/2016, non consente una effettiva graduazione della sanzione commisurata alla “gravità della violazione”.

La segnalata irragionevole sperequazione si presenta lampante proprio ed anche nella fattispecie del caso concreto laddove, a fronte di una omissione contributiva di € 190,52 la norma sanzionatoria, anche laddove fosse applicata nella minima afflizione pari a € 10.000 da parte di questo Giudice, comporterebbe l’irrogazione di una sanzione pari a 52 volte la violazione commessa.

Questo Giudice osserva, infine, come la novità esposta dall’Inps non incida sui termini della questione come sopra proposti. Infatti, l’Inps, richiamando una propria nota del Direttore Generale, la n. 3516 del 27.09.2022, ha invitato le proprie articolazioni locali a “rivedere” la sanzione irrogabile alla luce del comma 5 dell’art. 9, D.lgs. n. 8 del 2016, osservando che per le omissioni accertate con riferimento al periodo antecedente alla entrata in vigore della depenalizzazione (prima cioè del 6 febbraio 2016), la sanzione possa essere limitata nella misura della metà.

Si osserva come, però, anche in questo caso, pure ipotizzando nella fattispecie del caso concreto che attiene ad un’omissione effettivamente avvenuta anteriormente al febbraio 2016, l’applicazione della sanzione in Euro 5.000, si tratti comunque di una misura di oltre 25 volte l’omissione contributiva accertata.

Dunque, si ritiene, ancora sperequata.

Un rinvio alla Corte costituzionale, quello in parola, che, al cospetto dei molti interventi punitivi sproporzionati in materia di lavoro (si pensi al caso del recupero di agevolazioni per centinaia di migliaia di euro, ex art. 1, co. 1175, L. n. 296/2006, per “scoperture” pure minime), assume un interesse più ampio e di carattere generale, rivestendo tutto sommato la funzione di aprire una breccia a consimili riponderazioni in chiave costituzionale dell’impianto punitivo del nostro ordinamento del lavoro.

[Sintesi n. 11/2022]

[Articolo pubblicato anche su www.verifichelavoro.it]