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Oltre alle ipotesi “tradizionali” per cui appare solitamente contestabile il reato di caporalato, da una attenta lettura dell’art. 603-bis c.p. emerge che anche la corresponsione consapevole di differenze minime di retribuzione può concretare l’ipotesi di sfruttamento del lavoratore, se ne è provato l’“assillo” economico. Con i relativi rischi di incriminazione per i datori di lavoro ed eventualmente pure per chi li assiste.

di Mauro Parisi

Anche la ritenuta non corretta applicazione di Ccnl sotto il profilo economico potrebbe fare emergere accuse di “caporalato” per i datori di lavoro ed eventualmente anche, in concorso o per favoreggiamento, dei professionisti che li assistono. Una prospettiva poco considerata, ma in effetti, oltre che emergente dal dato testuale, oggi fattasi particolarmente attuale dato l’interesse alla materia mostrato da Procure e Uffici del lavoro.

Il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro -a tutti meglio noto come reato di cosiddetto “caporalato”- è previsto dall’art. 603-bis, c.p..

Nella sua accezione più nota e conosciuta, esso afferisce alla condotta di coloro che reclutano e comunque utilizzano manodopera, facendola lavorare in “condizioni di sfruttamento” e “approfittando dello stato di bisogno”.

Alla luce della più immediata ratio legis, la mente corre, giustamente, alle più gravi ipotesi di sfruttamento della manodopera, ad assolati campi di pomodori e ad acquartieramenti miseri e degradanti.

Tuttavia, la previsione dell’art. 603-bis, c.p., specie a seguito della modifica a opera della Legge 4 novembre 2016, n. 199, risulta più articolata e sottile di quanto non appaia alla prima impressione, tanto da meritare una maggiore attenzione quanto alle ricadute che essa può comportare. E non solo per i datori di lavoro e gli “intermediari”.

Tra le ipotesi di ritenuto indice dello sfruttamento della manodopera, è dato osservarsi come attualmente sia annoverata, tra le altre, anche la corresponsione di retribuzioni che, in sostanza, non rispettano i “minimali” stabiliti per legge.

Così l’art. 603-bis, c.p.

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:

1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;

2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;

2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;

3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro

Dalla lettura della previsione penale emerge come, tra le ipotesi di ritenuto soggiogamento del lavoratore, risiedano situazioni non insolite nella prassi, ma che non si manifestano in modi sempre univoci. E, comunque, di difficile ponderabilità.

Per molti aspetti sfuggenti possono infatti essere considerate quelle situazioni che attengono alla corresponsione di trattamenti economici non adeguati, per mancato rispetto della contrattazione collettiva.

Se infatti può dirsi palese lo sfruttamento in riferimento a situazioni di evidente squilibrio economico (es. in presenza di corrispettivi orari di € 2), appare più sottile la linea di demarcazione del lecito dall’illecito, allo stato dell’ordinamento, laddove si sia in presenza di una “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.

Ci si può interrogare, per esempio, su come debba essere ritenuta la “palese” difformità dai Ccnl degli emolumenti versati (se basta uno “scollamento” matematico, comunque sia -es. € 7,65 orari, anziché, € 7,85-, o se esso debba essere sensibile e più ampio). Ma pure quale genere di “reiterazione” di corrispettivi possa dirsi sufficiente a concretare il reato (due mesi? sei mesi?).

La crescente attenzione di Uffici del lavoro e Procure della Repubblica nei riguardi del “caporalato”, rende oggi più pressante l’esigenza di chiarire i termini della potenziale lesione del bene giuridico preservato dall’art. 603-bis, c.p..

Senz’altro non suscita difficoltà concettuali l’individuazione di coloro che possono venire puniti per illecita intermediazione e sfruttamento del lavoro, quali soggetti attivi. Chiaramente per l’imputazione del fatto non basterà ravvisare l’avvio o l’impiego del lavoratore, bensì occorrerà la presenza di due elementi oggettivi, rispondenti a condizioni fattuali, che andranno puntualmente provate: non solo lo sfruttamento del lavoratore, ma pure la presenza di un suo stato di bisogno.

Quanto allo “stato di bisogno dei lavoratori”, che si rendono disposti a lavorare in condizioni disagevoli, non occorre versare in stato di assoluta indigenza, ma è sufficiente che i lavoratori considerati si trovino in una condizione anche provvisoria di carenza di mezzi idonei a fare fronte a esigenze primarie. In definitiva, in una situazione di “assillo” economico tale da compromettere fortemente la sua libertà contrattuale in ambito lavorativo (cfr. Cass. Pen., sentenza n. 10554/2021).

Così per la S.C., sentenza n. 7861/2022

Lo stato di bisogno non si identifica con uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma come un impellente assillo e, cioè una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, in grado di limitare la volontà della vittima, inducendola ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose.

Tanto non basta, però, per dirsi perpetrato il reato di caporalato. La condizione di difficoltà personale deve dare motivo a un oggettivo sfruttamento del lavoratore.

In tale senso, occorre precisare che il Legislatore ha scelto di punire non lo sfruttamento in sé, ma solo l’approfittamento di una situazione di grave inferiorità del lavoratore (sia essa economica, che di altro genere), che lo induca ad accettare condizioni proposte dal reclutatore o dall’utilizzatore, a cui altrimenti non avrebbe acconsentito (Cassazione Penale, sentenza n. 7861/2022).

Sostanzialmente, la condizione di sfruttamento punita dall’art. 603-bis, c.p. è quella che coincide con l’abuso cosciente della condizione personale del lavoratore, da cui consegue un ricercato vantaggio di chi recluta o utilizza la manodopera.

Così per la S.C., sentenza n. 25083/2021

L’art. 603-bis c.p. è caratterizzato dallo sfruttamento del lavoratore, i cui indici di rilevazione attengono ad una condizione di eclatante pregiudizio e di rilevante soggezione del lavoratore, resa manifesta da profili contrattuali retributivi o da profili normativi del rapporto di lavoro, o da violazione delle norme in materia di sicurezza e di igiene sul lavoro, o da sottoposizione a umilianti o degradanti condizioni di lavoro e di alloggio.

Date queste premesse sull’obiettività del reato, va osservato come l’art. 603-bis, comma 2, c.p. descriva una serie di generici indici obiettivi di sfruttamento.

Il primo di tali indici attiene, appunto, alla corresponsione di retribuzioni che siano proporzionate rispetto al lavoro prestato e di un compenso “palesemente difforme dai contratti collettivi… stipulati da organizzazioni più rappresentative a livello nazionale”.

Come cennato, nessun indice matematico di riferimento viene offerto dal Legislatore quanto alla “sproporzione” rilevante, con ciò rendendo incerto (o, al contrario, sempre certo) quale debba essere lo “scarto” rilevante tra Ccnl e corrispettivo effettivo tale da potersi configurare lo “sfruttamento”.

In sostanza, la disposizione in commento si rifà a una testuale nozione di “palese difformità” che nulla indica in ordine alla misura della divergenza, ma solo alla sua esistenza.

Per cui, alla lettera, potrebbe astrattamente concretare la descritta ipotesi di sfruttamento anche un’evidente e perpetuata corresponsione di retribuzione inferiore, per esempio, a € 0,10 all’ora rispetto alla dovuta.

Dal dato testuale parrebbe perciò plausibile che mere divergenze concretino la “difformità” stabilita dalla disposizione. La quale circostanza aumenta oggi senza dubbio il rischio di valutazioni in malam partem per le aziende e i professionisti che le assistono.

A volere trarre ogni dovuta conseguenza da quanto risulta affiorare dalla disposizione, infatti, il rispetto in ordine alla corretta “corresponsione di retribuzioni” dovrà, nella sostanza, venire valutato rispetto al minimale retributivo di cui all’art. 1, D.l. n. 338/1989.

L’art. 1 predetto, come noto, stabilisce che “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale”.

Va però osservato che chi è chiamato a valutare la correttezza dei corrispettivi -ossia Istituti e funzionari-, lo fa di norma con un raffronto su base mensile (come pare anche suggerire la lettera del comma 2, dell’art. 603-bis, c.p., che parla di “retribuzioni” al plurale), quando correttamente la verifica dovrebbero avvenire rispetto al periodo d’imposta, ad anno (cfr. Cassazione, sentenza n. 9169/2003; Tribunale Milano, sez. lav., sentenza n. 1306/2020). Ciò aumenta il rischio di vedersi accusati (pure) di “caporalato”. Anche la sovente insufficiente considerazione del principio di onnicomprensività delle retribuzioni percepite (cfr. TUIR) può aumentare il pericolo che le aziende ricadano nell’alveo dell’art. 603-bis, c.p..

Un rischio tecnico da non prendere alla leggera.

In definitiva, seguendo l’interpretazione più diffusa in ordine al “minimale”, si potrebbe versare in una situazione di pacifico sfruttamento (per “corresponsione di retribuzione … difforme dai contratti collettivi nazionali”), per esempio, anche nel caso in cui per un certo tempo non si fosse corrisposta retribuzione per giornate di aspettativa non retribuita, ritenuta non giustificata alla stregua del Ccnl.

Oppure, nell’ipotesi di chi applica un Ccnl valutato di organizzazioni sindacali non comparativamente più rappresentative nel settore di attività considerato.

Già la Circolare Inl n. 5 del 28.2.2019, relativa al contrasto al caporalato, aveva sottolineato l’esigenza della massima rappresentatività sindacale del Ccnl applicato, inserendovi, peraltro, indicazioni ulteriori che non trovano riscontro nella norma.

Così la Circolare Inl n. 5/2019

Al riguardo si ritiene utile precisare che la reiterazione va intesa come comportamento reiterato nei confronti di uno o più lavoratori, anche nel caso in cui i percettori di tali retribuzioni non siano sempre gli stessi in ragione di un possibile turn over. Inoltre, il riferimento ai contratti collettivi è evidentemente da intendersi ai contratti sottoscritti dalle organizzazioni “comparativamente” più rappresentative, il che costituisce elemento di maggior garanzia per i lavoratori. Ciò anche in ragione del fatto che ogni altra disposizione di legge emanata negli ultimi decenni, che richiede l’applicazione di contratti collettivi a diversi fini, fa espresso riferimento ai contratti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali “comparativamente più rappresentative a livello nazionale” (v. ad es. l’art. 54 bis, comma 16, del D.L. n. 50/2017, secondo il quale nell’ambito del lavoro occasionale in agricoltura “il compenso minimo è pari all’importo della retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata individuata dal contratto collettivo di lavoro stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”; oppure l’art. 7, comma 4, del D.L. n. 248/2007 secondo il quale, nel settore della cooperazione, vanno applicati “i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”).

Per cui, il tema della presunta maggiore o minore rappresentatività sindacale di quanti sottoscrivono i Ccnl -pressoché mai provata in concreto (cfr. TAR Lazio, sent. n. 8865/2014; Trib. Pavia, sent. n. 80/2019; Trib. Milano, sent. n. 596/2020; Trib. Napoli, sent. n. 1717/2020)- potrà divenire ragione o meno di incriminazione.

Malgrado l’incertezza attuale del dibattito su ciò che vada considerato maggiormente rappresentativo in termini di Ccnl, l’accusa di “caporalato” potrebbe sorgere dalla mera applicazione di un contratto collettivo ritenuto “sbagliato”. Una situazione che rischia di condurre a contestazioni e imputazioni arbitrarie, o comunque potrebbe essere difficile liberarsi.

Del resto, contrariamente a quello che si crede comunemente, l’adeguatezza e la proporzionalità del trattamento retributivo, non corrisponde ad alcun precetto di necessaria applicazione del migliore trattamento retributivo previsto da pure legittimi Ccnl. Ciò in quanto i Ccnl di oo.ss. maggiormente rappresentative potrebbero essere molteplici e recanti importi differenti, ma comunque di valido riferimento.

Dando poi seguito a pedissequi e agevoli ragionamenti sulla materia, è facilmente prevedibile che l’Autorità giudiziaria potrebbe configurare il “caporalato”, per esempio, in molti casi in cui si ritiene l’appalto di servizi un’illecita fornitura di manodopera, venendo applicato (scientemente, si suppone, al fine di ottenere auspicati “risparmi”) dall’appaltatore un trattamento retributivo deteriore rispetto a quello migliorativo del committente.

E ciò, magari, facendo ritenere potenzialmente incriminabile il coinvolgimento di quei professionisti che con la loro necessaria attività di supporto tecnico -magari, nella sostanza, anche solo “tenendo i conti”- avrebbero agevolato, o comunque resa possibile, la condotta penalmente rilevante.

[Sintesi n. 7/2022]

[Articolo pubblicato anche su www.verifichelavoro.it]