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Se il dipendente è familiare del titolare dell’azienda e può decidere liberamente come gestire il proprio orario di lavoro, spetta all’Inps l’onere di dimostrare con precisione un maggiore impiego del lavoratore. E ciò anche se si è confessato che i tempi di lavoro registrati nel Lul (Libro unico di lavoro), non coincidono con quelli praticati nei fatti.

E’ questa l’interessante decisione del giudice del lavoro di Treviso (Giordan), che con sentenza n. 322 del 21 luglio 2021 ha stabilito che l’Istituto attualmente guidato da Pasquale Tridico non può pretendere contribuzione per una presunta più estesa occupazione del lavoratore familiare dell’imprenditore, a meno che non si provi in modo puntuale quali siano stati gli effettivi tempi di tale lavoro.

Nel caso considerato dal tribunale trevigiano, il datore di lavoro era suocero della lavoratrice, alla quale, assunta con contratto di lavoro part-time, era permesso di organizzare con una certa flessibilità le proprie giornate lavorative. In particolare, le era concesso entrare in ufficio oltre il previsto inizio dell’orario di lavoro -verso le 8.30 anziché le 8- e uscirne prima, allontanandosi anche per esigenze di carattere familiare. Sempre nell’ambito di tale ammessa flessibilità, la lavoratrice era però usa recarsi alcuni sabati presso la sede di lavoro, così come dichiarava espressamente agli ispettori nel corso di un controllo ispettivo. Per l’Inps tanto configurava una maggiore attività di lavoro non dichiarata, per cui doveva essere versata ulteriore contribuzione.

Le dichiarazioni indizianti assunte nel corso del controllo ispettivo, venivano tuttavia precisate in sede di giudizio, allorquando la dipendente e altri testimoni confermavano la possibilità concessale di determinare, di fatto, i limiti temporali del proprio lavoro, a prescindere dall’orario contrattuale e dalle giornate di lavoro da contratto, dal lunedì al venerdì.

Per il giudice del lavoro di Treviso, però, per fare valere le proprie pretese occorre che l’Inps dimostri in modo specifico quali sarebbero gli esatti tempi di lavoro del familiare e che, nel complesso, la sua attività sia stata superiore a quella registrata. Sotto questo profilo -e contrariamente a orientamenti meno rigorosi sempre più diffusi presso i tribunali, con evidente favor per l’Inps-, la decisione si segnala per il ritorno a una più attenta interpretazione della lettera della legge. La quale impone anche all’Inps, che si dichiari creditore di contribuzione nei confronti di un’azienda, di dare -come tutti i creditori (art. 2697, cod.civ.)- prova sufficiente ed univoca delle proprie pretese.

Non basta quindi l’accertamento degli ispettori trasfuso in un verbale di contestazione, per fare sì che i presunti fatti si possano considerare provati. Infatti, come autorevolmente affermato dalla Suprema Corte (cfr. sent. n.26274 del 2020) «la sussistenza del credito contributivo dell’Inps, preteso sulla base di verbale ispettivo, deve essere comprovata dall’Istituto con riguardo ai fatti costitutivi rispetto ai quali il verbale non riveste efficacia probatoria».

di Mauro Parisi

[ItaliaOggi n. 194 del 19.08.2021]