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Tra le conseguenze della verifica ispettiva del lavoro sommerso, è previsto anche il non rilascio del DURC per 6 mesi.

La vicenda

Nel corso di un controllo ispettivo, vengono rinvenuti presso un’azienda alcuni lavoratori specializzati intenti ad assemblare del materiale che, saltuariamente, vengono impiegati dall’azienda presso alcuni cantieri.

A fronte delle iniziali dichiarazioni degli ispettori, che ancor prima di formare il verbale esprimono a voce un giudizio di non liceità dei rapporti intercorsi, l’azienda contesta fin da subito tale ricostruzione, ribadendo il carattere autonomo e del tutto eventuale dell’apporto di lavoro dei collaboratori specializzati avvenuto presso di essa.

Malgrado sia stata prodotta documentazione a difesa, gli ispettori decidono di concludere i propri accertamenti nel senso già preannunciato, contestando formalmente all’azienda ispezionata il lavoro sommerso.

Decisa a fare valere le proprie ragioni, l’azienda non ritarda a presentare ricorsi amministrativi e richieste di audizione, ai sensi della legge 689/1981 e del decreto legislativo 124/2004.

Nell’attesa di essere convocata a esporre le proprie difese, nonché a conoscere gli esiti dei ricorsi esperiti, però, l’azienda si vede rifiutare il rilascio del DURC da parte dell’INPS.

Sorpresa e preoccupata della circostanza, richiede immediatamente chiarimenti all’Istituto, non risultando che le siano mai state contestate omissioni contributive. Le viene però risposto che si tratta dell’applicazione necessaria di una misura accessoria alla contestazione di lavoro irregolare di durata semestrale, prevista da decreti ministeriali.

Il timore di perdere per sei mesi il DURC –circostanza che comprometterebbe l’esecuzione degli appalti in essere-, fa sì che l’azienda decida di proporre ulteriori ricorsi nel tentativo di evitare tale effetto sfavorevole.

Si chiede, però, se la situazione possa essere facilmente recuperata.

La soluzione

La vicenda vissuta dall’azienda del caso proposto è piuttosto rara, ma, da molti punti di vista, non dovrebbe stupire. Infatti, che a seguito di rilievi in ordine a lavoro sommerso, la certificazione di regolarità contributiva possa non essere concessa per un certo lasso di tempo, è una pacifica conseguenza prevista oggi proprio dal nostro ordinamento.

La previsione e la possibilità di subire, a causa del lavoro irregolare, anche questa grave misura punitiva in malam partem -oltre che le note sanzioni amministrative previste dalla legge per quanti impiegano “lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato”- sono del resto un’eventualità che dovrebbe essere conosciuta a tutti gli operatori del lavoro.

Ordinariamente, chi impiegata lavoratori che siano dichiarati irregolari, si attende –in caso di “scoperta” da parte degli organismi ispettivi- di essere sanzionato in via amministrativa con una somma pecuniaria modulata in ragione del tempo effettivo dell’impiego “in nero” (cfr. art. 22, D.Lgs n. 151/2015 che novella per l’ennesima volta l’art. 3 del decreto-legge n. 12/2002, già convertito dalla legge n. 73/2002).

La predetta sanzione amministrativa –per un illecito ora sanabile a seguito di spontanea regolarizzazione-, però, non costituisce l’unica reazione dell’ordinamento.
Per taluni uffici ispettivi la circostanza che un datore di lavoro abbia violato le corrette “condizioni di lavoro” previste dall’ordinamento –per lavoro irregolare, come sotto qualunque altro profilo-, dovrebbe comportare una perdita di benefici normativi e contributivi alla stregua dell’art. 1, comma 1175, legge n. 296/2006. Si è già potuto osservare, tuttavia (vedi Verifiche e Lavoro, n. 4/2018, pag. 26), che tale reazione generalizzata e sfavorevole non risulta affatto stabilita dall’ordinamento.

Anche in materia di regolarità contributiva e relativi benefici, di tutta evidenza, non può che operare puntualmente il principio di legalità, massima garanzia di tutela da reazioni estemporanee dei poteri pubblici. Per cui, come insegna la medesima Costituzione (art. 23), nessuno può subire misure economiche o essere costretto a fare cose che non siano previamente previste dall’ordinamento.

In materia di DURC, tuttavia, esiste proprio un’espressa previsione per cui, a prescindere dalla correntezza dei versamenti contributivi, la commissione di dati fatti illeciti incide sulla medesima regolarità amministrativa di chi li commette.

Si tratta dell’art. 8 del decreto del Ministero del lavoro del 30 gennaio 2015, in materia di regolarità contributiva.

Il predetto decreto ministeriale, nel dare attuazione al succitato art. 1, comma 1175, L.n. 296/2015, individua specificamente una serie di infrazioni in materia di condizioni di lavoro capaci di “paralizzare” il DURC. Come è dato evincersi dalla previsione, non solo i fatti ostativi sono solo quelli specificamente indicati dal decreto; ma devono ulteriormente ricorrere le condizioni di “definitività” dei provvedimenti amministrativi e giurisdizionali.

Quanto a quali siano tali fatti illeciti ostativi, come evidenzia il detto articolo 8 del decreto, occorre fare riferimento all’Allegato A al medesimo. Si tratta dell’elenco delle violazioni alle disposizioni in materia di tutela delle condizioni di lavoro, che precludono la dichiarazione di regolarità. A seguito della constatata commissione di un’irregolarità prevista tra quelle dell’Allegato A, non potrà essere rilasciato il DURC aziendale per il periodo corrispondente alla gravità del fatto commesso.

Si tratta per lo più di gravi illeciti penali attinenti alla sicurezza del lavoro e a fatti gravi occorsi alle persone. Ma anche dell’impiego di lavoratori extracomunitari privi del regolare permesso di soggiorno o con permesso scaduto (articolo 22, comma 12, D.Lgs. n. 286/1998). Nelle previste ipotesi di reato, il DURC non viene concesso -da 8 a 24 mesi-, quale sanzione accessoria ai più gravi provvedimenti di pena.

 

Ma sussistono anche infrazioni di carattere amministrativo che inibiscono la certificazione. Come è visibile dall’estratto della tabella di cui all’Allegato A al decreto 2015, si tratta proprio dell’impiego di lavoro irregolare –che osta al rilascio del DURC per ben 6 mesi- e della mancata concessione di riposi giornalieri e settimanali –che ostano al DURC per 3 mesi, se si riferiscono ad almeno il 20% del totale della manodopera impiegata-.

A questo punto risulta comprensibile e, si direbbe, giustificata la circostanza che venga non concessa la certificazione all’azienda del nostro caso. Ma se in astratto i presupposti del rigetto appaiono corretti, nel caso specifico fa bene l’azienda a tutelarsi, dato che il lavoro irregolare, benché contestato dagli ispettori, ancora risulta confermato da “provvedimenti amministrativi o giurisdizionali definitivi”.

In effetti, quando è pervenuto il diniego, ancora pendevano i primi ricorsi amministrativi circa la qualificazione dei lavoratori. Quindi, male ha fatto l’INPS a non concedere la certificazione richiesta.

Va perciò osservato che un ricorso amministrativo all’INPS, che rilevi tali criticità ai fini del recupero del regolare DURC, dovrebbe essere senz’altro accolto. Del resto, sembra corretto evidenziare che, fintanto che perdureranno i contenziosi in sede amministrativa e giudiziale, non potranno dirsi sussistere i caratteri della necessaria “definitività” ai fini ostativi in discorso.

Un’ulteriore soluzione, volta a non perdere il DURC, potrebbe essere quella di regolarizzare, a seguito di diffida obbligatoria –come probabilmente è avvenuto nel caso proposto-, i rapporti contestati. Sebbene in tale ipotesi l’effetto liberatorio non sia previsto espressamente dall’ordinamento per le infrazioni amministrative sanate, sembra che esso possa essere ammesso in forza delle “parallele” previsioni stabilite per il penale (che fa riferimento agli effetti non ostativi della prescrizione obbligatoria e dell’oblazione) di cui all’art. 8 del decreto 30.1.2015.

È chiaro che, in tale ultima ipotesi, pure di salvare il DURC, si dovrà giungere però a riconoscere le contestazioni degli ispettori. Forse, però, nel caso, tenuto conto degli interessi in gioco, il minore male.

a cura di Studio Legale VetL

[V@L – Verifiche e Lavoro n. 5/2018]